Onorevoli Colleghi! - Ci troviamo in una fase di transizione dal sistema di produzione fordista a quello postfordista. Il concetto di flessibilità del lavoro, l'idea che occorra abbandonare il modello del «posto fisso» è parte fondante della contemporaneità, tanto che molti economisti e studiosi sostengono che solo con un veloce interscambio dei posti e dei luoghi di lavoro sia possibile adattarsi alle nuove regole che la «globalizzazione neoliberista» e il nuovo paradigma socioeconomico-produttivo impongono.
      In effetti, il processo che ha caratterizzato lo sviluppo industriale degli ultimi venticinque anni nei Paesi a capitalismo maturo è stato contraddistinto, in larghissima misura, anche se in forme diversificate, da un forte aumento della produttività del lavoro, cui è corrisposto un risparmio di lavoro che eccede decisamente la creazione di nuove opportunità occupazionali.
      Dunque, gli incrementi massicci di produttività, dovuti a intensi processi di innovazione tecnologica e a una conseguente ridefinizione del mercato del lavoro, si sono tradotti esclusivamente in un accrescimento vertiginoso dei profitti. Sul versante della forza-lavoro, in altri termini, non si è determinato alcun beneficio da tali incrementi di produttività. Infatti, non

 

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si è realizzato incremento occupazionale, né corrispondenti incrementi nell'andamento dei salari reali, né tanto meno relativi andamenti decrescenti nell'orario di lavoro né, infine, il mantenimento dei precedenti livelli di salario indiretto quantificabili attraverso la spesa sociale complessiva.
      Questo anche perché molte imprese, per ridurre il peso degli oneri sociali e il costo del lavoro, utilizzano sempre più il cosiddetto outsourcing, ossia l'esternalizzazione di fasi e di interi processi produttivi al fine di accrescere l'efficienza e la produttività dell'impresa e diminuire i costi. Domina la «produzione snella», che permette di realizzare subito alti profitti. Per rendere questo sistema sempre più efficace, le imprese si organizzano con nuove tecniche e tecnologie, tese a incrementare la parte del ciclo produttivo che viene decentrata all'esterno, dando così risposta in tempi sempre più brevi alle oscillazioni della domanda dei clienti-consumatori.
      Tutto ciò porta anche a un altro importante cambiamento: nel sistema fordista, i diritti sociali dei lavoratori avevano una validità universale ed erano protetti da leggi, mentre in quello postfordista questi diritti sembrano scomparire. Ciò avviene perché quando sono le leggi del mercato a ordinare, a imporre qualità e quantità in tempo reale, il lavoro diviene sempre più costrittivo, destinato all'obbedienza e alla fedeltà.
      La nuova organizzazione capitalistica del lavoro si caratterizza sempre più con l'esplosione della precarietà, della flessibilità, della deregolamentazione, sotto forme senza precedenti per i salariati in attività, per i quali si accresce il disagio del lavoro, la paura di perdere l'impiego, di non avere più una vita sociale, anzi di dedicarla tutta al e per il lavoro. È l'intero vivere sociale a subire questo processo di precarizzazione.
      In effetti, la flessibilizzazione non mira ad aumentare l'occupazione, bensì a imporre alla forza-lavoro l'accettazione di salari reali più bassi e di peggiori condizioni di lavoro: in Italia, negli anni tra il 1997 e il 2000, a fronte di una crescita complessiva dell'occupazione del 4,3 per cento si è avuto un aumento dell'occupazione standard dell'1 per cento. Il 2002 indica un modesto aumento dell'occupazione complessiva (1,55 per cento), con una crescita dell'occupazione standard dell'1,7 per cento e un aumento dell'occupazione temporanea del 3,2 per cento. Questa tendenza è confermata dalle rilevazioni ISTAT sulle forze di lavoro riferita anche a questi ultimi anni.

L'andamento del mercato del lavoro e lo sviluppo delle tipologie di lavoro precario/flessibile.

      I lavoratori autonomi qualificati come collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co.), continuano a crescere, sfiorando ormai le 2.400.000 unità. Il lavoro interinale, introdotto con il cosiddetto «Pacchetto Treu», prolifera; nel 1998 si contavano 34 società autorizzate, nel 2000 se ne contavano 52, attualmente 69, con un totale di 2.114 filiali distribuite sul territorio nazionale. Le imprese che si servono del lavoro interinale sono concentrate soprattutto nel nord del Paese (più del 40 per cento nel nord ovest) e va ricordato che l'utilizzo del lavoro interinale non è appannaggio delle imprese maggiori, ma è anzi molto diffuso tra le imprese di piccola e media dimensione. I lavoratori interinali sono di solito giovani, come risulta da dati del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, secondo i quali il 30,7 per cento è al di sotto dei venticinque anni e il 30,8 per cento ha un'età compresa tra i venticinque e i ventinove anni.
      La presenza di tutte queste nuove forme di lavoro non si è accompagnata alla determinazione di nuove risorse economiche e nuovi investimenti produttivi tendenti a diminuire la disoccupazione né tanto meno a una nuova politica di welfare, in grado di assicurare adeguate coperture a tutti i lavoratori caratterizzati da lavoro discontinuo, precario e che si

 

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trovano quindi in una situazione di estremo disagio e di incertezza.
      Va considerato che nell'arco di dieci anni la percentuale di lavoro atipico sul totale del lavoro dipendente è passata dal 9,1 per cento del 1993 al 16,5 per cento del 2003, con una larga maggioranza di donne (63,5 per cento).

I dati ufficiali del lavoro atipico negli ultimi anni.

      Per la stesura della proposta di legge si è fatto principalmente riferimento ai dati e ad alcune considerazioni contenute in: ISTAT, Contabilità nazionale e Rilevazione su occupazione, retribuzioni e oneri sociali; Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Rapporto di monitoraggio sulle politiche occupazionali e del lavoro; Ragioneria generale dello Stato, Conto annuale; Eurispes, Rapporto Italia; Vasapollo Luciano e Arriola Palomares Joaquin, L'Uomo precario nel disordine globale.
      Nel 2003 è proseguita una tendenza ormai consolidata nel mercato del lavoro italiano sin dalla metà degli anni Novanta: l'incremento del lavoro atipico nelle sue molteplici forme contrattuali.
      Dati statistici raffrontati tra loro ci confermano la crescita delle posizioni di lavoro dipendente nei settori di attività economica considerati. Tra il 2002 e il 2003, infatti, il numero totale delle posizioni di lavoro dipendente aumenta del 3 per cento, a fronte di una crescita media annua del 2,5 per cento nel periodo 1996-2003. L'incremento, ancora una volta, è influenzato dalle posizioni di lavoro atipico (5,3 per cento), sebbene su livelli di crescita inferiori rispetto al passato (6,4 per cento nel periodo 1996-2003).
      In riferimento all'anno 2003, le tipologie che è stato possibile quantificare in base alla fonte OROS-INPS sono: lavoro interinale; lavoro a domicilio; solidarietà esterna; part-time; contratti a tempo determinato; contratti di formazione e lavoro, apprendistato; piani di inserimento professionale; collaboratori coordinati e continuativi; lavori di pubblica utilità e socialmente utili. Relativamente alle nuove tipologie contrattuali previste dalla recente normativa, utilizzando la stessa fonte è stata effettuata una prima quantificazione dei contratti di inserimento, introdotti dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, attuativo della legge 14 febbraio 2003, n. 30. Risulta invece impossibile distinguere le nuove tipologie contrattuali in regime di somministrazione (interinali e staff-leasing) da quelle già esistenti (interinali) per l'attuale assenza di codici occupazione distinti per la compilazione dei moduli di dichiarazione contributiva (DM 10).
      Per completare il quadro del lavoro atipico, rimane fondamentale la determinazione dei livelli occupazionali sottostanti le posizioni relative ai collaboratori coordinati e continuativi, la cui quantificazione è possibile con riferimento al 2001 e pari a circa 540 mila (fonte: Censimento generale dell'industria e dei servizi del 2001).
      Rispetto al contratto a tempo indeterminato, preso come base di riferimento, la riduzione salariale oraria per un contratto a termine è, infatti, pari al 10,5 per cento; quella di un contratto di formazione e lavoro si riduce di circa il 12,9 per cento e quella per gli apprendisti si contrae fino al 22,1 per cento.
      Forme di lavoro diverse dal contratto standard a tempo indeterminato consentono quindi un notevole risparmio per le imprese in termini di retribuzione dei lavoratori.
      Anche in questo caso, più fattori spiegano i decrementi. Se per l'apprendistato una retribuzione inferiore è prevista dalla legge, per i lavoratori con contratto di formazione e lavoro e per coloro che hanno contratti a tempo determinato gioca un ruolo determinante l'inquadramento, prevalentemente in livelli professionali bassi.
      I lavoratori non a tempo indeterminato, inoltre, registrano mediamente una presenza sul posto di lavoro superiore a quella dei lavoratori con contratto standard, con una quota maggiore di ore lavorate rispetto a quelle retribuite, da cui

 

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consegue una diminuzione della retribuzione per ora lavorata. Le ragioni della maggiore presenza sono, probabilmente, da ricercare nella precarietà del contratto che fa desistere i lavoratori non standard dall'utilizzo di congedi o permessi per malattia e/o maternità.
      Fatte queste premesse, sulla base di analisi di dati statistici ufficiali e elaborazioni e inchieste come quella del Centro studi CESTES Proteo, diventa evidente quanto in questi anni quello dell'occupazione e della stabilità del rapporto di lavoro sia il principale problema del nostro Paese. La disciplina rigida è sostituita ormai dalla «flessibilità» d'impresa, che si sviluppa in modo disordinato, segmentato e senza regole, tagliando il costo del lavoro e le garanzie.
      All'intenso e traumatico sviluppo in chiave di efficienza aziendalistica dei lavori atipici non ha corrisposto una altrettanto rapida legislazione a causa della difficoltà, sicuramente voluta, nella collocazione e monitoraggio del lavoro atipico; anzi, con vari decreti attuativi si è causata una drammatica e violenta destrutturazione del lavoro, nella forma e nella sostanza dell'incremento di sfruttamento e dell'aumento del rischio di incidenti sul lavoro e di malattie professionali per i lavoratori atipici, che non sono sufficientemente tutelati, neanche per questo aspetto.
      Tutto ciò porta alla diversa impostazione dei diritti sociali dei lavoratori, che nel sistema fordista avevano una validità universale e venivano protetti da leggi, mentre nel sistema postfordista sono le leggi del mercato a comandare, a imporre qualità e quantità in tempo reale e il lavoro diventa sempre più costrittivo e senza garanzie. Oggi i lavori si svolgono sempre più nell'ambito delle relazioni interpersonali.
      Ci sembra utile riportare quanto scrive Bennet Harrison nel suo libro Agile e Snella (1998): «Tutto ciò determina un inasprimento delle sperequazioni, poiché due persone che lavorano fianco a fianco possono avere eguale competenza, ma una otterrà un lavoro a tempo pieno mentre l'altra passerà da un lavoro precario all'altro».

Una proposta di legge di sanatoria del precariato.

      Il lavoro flessibile è oggi un aspetto caratterizzante del mondo del lavoro, con risvolti complessi che incidono non solo sulla condizione materiale dei più di cinque milioni di lavoratori con contratti atipici, ma che ha anche risvolti sociali rilevanti. Infatti, la flessibilità dei contratti, con il carico di minori diritti e bassi redditi, comporta una precarizzazione delle condizioni di vita di un vasto settore della società.
      Su questo fenomeno esistono dati ufficiali, per quanto non sufficientemente recenti, ma utili per evidenziare la rilevanza del fenomeno sia nel settore privato sia nel settore del pubblico impiego.
      Secondo l'ultimo rapporto ISTAT, come abbiamo visto, in Italia sono 650.000 i collaboratori, 150.000 i lavoratori in somministrazione e 110.000 le prestazioni d'opera occasionali.
      A questi lavoratori vanno aggiunti almeno 170.000 nuovi iscritti del 2004, anche se sottostimati. Si arriva così ad almeno tre milioni di iscritti al fondo INPS parasubordinati e a circa 1.900.000 posizioni attive, senza considerare gli associati in partecipazione (circa 400.000, da stime INAIL), lavoratori che dal 2004 sono confluiti nel fondo di gestione separata dell'INPS. I dati dell'Istituto si spiegano solo ricorrendo a un calcolo virtuoso: se si considerano complessivamente tutti i contratti a termine dei lavoratori in somministrazione e si dividono per i contratti a tempo pieno di dodici mesi, si ottengono circa 150 mila contratti ipotetici.
      Ne emerge che i lavoratori precari in Italia sono oltre 2,5 milioni: collaboratori coordinati e continuativi e a progetto (1.177.000), collaboratori occasionali (106.000), collaboratori con partita IVA (311.000), persone assunte con contratto di somministrazione (ex interinali, 502.000),

 

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associati in partecipazione (400.000). Se si aggiungono quelli con contratti a tempo determinato (1.599.000), il numero dei lavoratori precari raggiunge addirittura i quattro milioni.
      Inoltre, una recente indagine dell'EURISPES (Rapporto Italia) mostra, d'altro canto, un quadro preoccupante per i risvolti sociali di questo fenomeno. L'indagine coinvolge un campione rappresentativo di 446 lavoratori atipici di età compresa tra i 18 e i 39 anni, lavoratori - cioè - che si trovano nella fase della maturità anagrafica, durante la quale generalmente si compiono scelte di vita importanti e rilevanti anche su un piano sociale più generale.
      Dall'indagine emerge che oltre i tre quinti degli intervistati affermano di aver sempre lavorato con contratti atipici; quindi tale forma contrattuale non rappresenta un'opportunità di primo inserimento lavorativo, tanto che risulta aver sempre lavorato con contratti atipici non solo la maggior parte dei lavoratori più giovani (tra i diciotto e i venticinque anni), ma anche e soprattutto gli intervistati che hanno raggiunto la piena maturità anagrafica: il 66,9 per cento di quanti hanno un'età compresa tra i 26 e i 32 anni e il 67,8 per cento di quanti hanno tra i 33 e i 39 anni, per i quali l'atipicità ha assunto un carattere permanente.
      I dati dimostrano quindi l'esistenza di un precariato diffuso nel settore privato, dove incomincia a farsi strada l'applicazione della legge n. 30 del 2003, con l'attivazione di forme contrattuali pensate per soddisfare la fluidità del mercato e far ricadere i costi dell'attuale sistema di produzione solo sul lavoratore, facendo invece sempre e comunque salve le esigenze aziendali. Una «riforma» che ha portato alle estreme conseguenze quanto già contenuto nel cosiddetto «pacchetto Treu», allargando le tipologie possibili di contratti che, di fatto, sembrano essersi attestate, in termini di maggiore ricorrenza numerica e temporale, in sette-otto tipologie ben definite: collaboratori coordinati e continuativi e a progetto, collaboratori occasionali, collaboratori con partita IVA, persone assunte con contratto di somministrazione (ex interinali), associati in partecipazione, contratti a tempo determinato e LSU. Contratti atipici e a termine non sono solo il presente del settore privato, ma hanno negli ultimi anni rappresentato la forma privilegiata, se non esclusiva, di accesso al lavoro pubblico, e i lavoratori precari nella pubblica amministrazione negli ultimi cinque anni, aggiungendosi ai LSU precari cronici più che storici, rappresentano una realtà consolidata e in crescita continua.
      Riteniamo che proprio dalla punta di diamante del lavoro precario pubblico si possa avanzare una proposta di sanatoria generalizzata e assunzione programmata nelle pubbliche amministrazioni che evidenzi il senso profondo del ricorso al lavoro precario come attacco al salario e ai diritti dei lavoratori e rimetta radicalmente in discussione i processi di esternalizzazione dei servizi pubblici; occorre che lo Stato e la pubblica amministrazione ritornino a essere datori di lavoro e moderatori del mercato del lavoro, senza che questo debba necessariamente voler dire assistenzialismo, ma solo difesa dei diritti dei lavoratori, del ruolo del servizio pubblico, moderazione sia dei costi sia delle tariffe e qualità del servizio all'utenza.
      A nostro avviso, infatti, l'attuale situazione di precariato diffuso creatasi anche nella pubblica amministrazione si è determinata per una precisa volontà politica, volta non a rendere più efficiente ed economica la pubblica amministrazione, ma, come gli stessi dati ufficiali (ISTAT e conto economico) attestano, a rendere più ricattabile la forza lavoro e a spostare ingenti risorse pubbliche verso il capitale privato.
      Infatti, negli ultimi anni la politica italiana, in materia di pubblica amministrazione è stata incentrata da un lato sulla riduzione dei costi e, dall'altro, sulla esternalizzazione di servizi. Con la scusa della riduzione della spesa pubblica si sono operate sia una riduzione dei servizi resi dalla pubblica amministrazione, sia una riorganizzazione interna alle pubbliche amministrazioni, tesa alla riduzione
 

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dei costi attraverso il ridimensionamento delle piante organiche di diritto e l'aumento generalizzato dei carichi di lavoro, a fronte di un blocco delle carriere e delle assunzioni di personale e del misconoscimento economico delle mansioni superiori di fatto. In realtà, la riduzione dei costi si dimostra, da un lato, come un'operazione di «finanza creativa» tesa a spostare ingenti quantità di risorse dal pubblico al privato - attraverso le esternalizzazioni dei servizi operate in questi anni - dall'altro, come un'operazione di generalizzata precarizzazione del lavoro pubblico; questo, sia attraverso la trasformazione del rapporto di lavoro in senso privatistico, sia attraverso l'introduzione massiccia di forme contrattuali precarie e atipiche, ormai diventate le uniche forme di ingresso di nuova forza lavoro nel pubblico impiego. Le previsioni delle leggi finanziarie degli ultimi cinque anni in materia di personale delle pubbliche amministrazioni rendono chiaro il quadro dell'orientamento politico-economico di fondo in materia di pubblico impiego e di rapporto tra servizio pubblico e privato dei servizi.
      Precarietà, stretta sul personale ed esternalizzazioni sono i tre cardini su cui si sta riorganizzando il sistema dei servizi pubblici e del pubblico impiego, con conseguenze che vanno ben al di là di ogni pudore di risparmio di spesa, poiché si traducono semplicemente in una riduzione della quantità e qualità dei pubblici servizi e dello Stato sociale, a cui si accompagna un forte attacco a un pezzo significativo e trainante del mondo del lavoro in Italia. In tal modo si realizza il consolidamento della logica della precarizzazione e della flessibilizzazione del mondo del lavoro, che fa da contraltare all'aumento delle rendite dei capitali finanziari e delle grandi holding dei servizi.
      Basta guardare i dati ufficiali più recenti per rendersi conto dell'entità del fenomeno. Dal conto economico annuale pubblicato dalla Ragioneria generale dello Stato, i cui dati risalgono al 2003 e sono stati resi noti solo nel 2005, emerge un dato numerico complessivo di 152.592 unità di lavoratori precari divise in cinque tipologie contrattuali (96.029 tempo determinato, 45.969 LSU, 7.343 interinali, 3.035 formazione e lavoro, 216 telelavoro), a cui va sommato il dato di 97.995 lavoratori co.co.co., per un totale generale di 250.587 lavoratori precari a vario titolo nei 9.833 enti pubblici rilevati.
      Raffrontando i dati del 2003 con quelli del biennio precedente, emerge una variazione percentuale pari a: +11,9 flessibili; +107 per cento lavoro interinale; -15 per cento LSU; +29 per cento co.co.co..
      Questo dato, già di per sé significativo, assume un ulteriore rilievo se si considera che il tasso di assunzione del personale a tempo indeterminato ha avuto il seguente andamento: nel 2001, è stato del 4,5 per cento; nel 2002, del 2,29 per cento; nel 2003, dell'1,38 per cento. Ciò a fronte di un tasso di cessazioni pari al 2,9 per cento nel 2001, al 2,73 per cento nel 2002 e al 2,65 per cento nel 2003.
      Nella stessa premessa illustrativa del conto economico si spiega: «I tassi di assunzione e cessazione, relativi al solo personale a tempo indeterminato, sono influenzati dalle politiche occupazionali restrittive degli ultimi anni e dalle modifiche dell'età pensionabile. Significativo l'anno 2003, che a fronte di un più esteso blocco delle assunzioni, introdotto con la legge finanziaria, presenta il tasso di assunzione più basso degli ultimi anni (+1,38 per cento). Il personale con rapporto di lavoro flessibile non è considerato nei tassi di turn over. Considerando anche l'andamento di tale personale, i tassi di assunzione e cessazione si mantengono sostanzialmente invariati».
      Partendo da questi dati, è facile prevedere che i prossimi dati relativi al biennio 2004/2005 segneranno un ulteriore allargamento dell'utilizzo di lavoro precario, in virtù del blocco delle assunzioni stabilito nelle relative leggi finanziarie e accompagnato da una tendenziale e rilevante previsione della riduzione della spesa proprio sul personale.
      La variazione percentuale del personale in servizio al 31 dicembre degli anni 2001-2002-2003 risulta pertanto di segno
 

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negativo; essendo pari, per il biennio 2001/2002 al -0,02 per cento e per il biennio 2002/2003 al -0,90 per cento.
      Dato facilmente raffrontabile con le percentuali di segno positivo del personale precario sopra riportate.
      Pertanto si può affermare che il numero dei precari nelle amministrazioni pubbliche conosce un aumento esponenziale, con differenze vistose rispetto ai lavoratori con contratti a tempo indeterminato e ripercussioni in termini di diritti, di salario e di condizioni lavorative, pur contribuendo al funzionamento della macchina amministrativa dello Stato e degli enti locali alla stregua dei lavoratori a tempo indeterminato, ma, di fatto, senza tutele o certezze di durata o, come nel caso dei LSU, addirittura «al nero» e senza contributi.
      Se a questi dati affianchiamo quelli relativi ai costi, ne emerge una variazione del costo complessivo del personale della pubblica amministrazione, per il biennio 2001/2002 del 3,9 per cento e, per il biennio 2002/2003 del 4,4 per cento.
      Si evidenzia, così, che a fronte della riduzione del personale stabile non si è avuta una riduzione della spesa complessiva del personale; un trend che viene confermato se prendiamo il dato relativo all'andamento del costo del personale a tempo determinato e in formazione lavoro (che aumenta in percentuale, per il biennio 2001/2002, del 4,7 per cento e, per il biennio 2002/2003, del 23,5 per cento), e se analizziamo l'andamento della spesa nel triennio 2001/2003, raffrontato all'andamento del numero delle unità di personale nello stesso periodo.
      Questa tendenza è, del resto, confermata anche dal raffronto con i recenti dati (2004/2005) relativi alla spesa per il personale delle pubbliche amministrazioni e si evince, anche, da un raffronto più generale sull'andamento dei redditi da lavoro dipendente relativi al personale della pubblica amministrazione dal 1999 al terzo trimestre 2005.
      Quanto premesso, ripreso da dati ufficiali, evidenzia che l'attuale utilizzo delle forme di lavoro atipiche nelle pubbliche amministrazioni e l'estensione e la durata del fenomeno, crescente e consolidato nel medio periodo, non trova giustificazione in merito a picchi gestionali e non corrisponde a una necessità di copertura di carenze di organico temporanee ma a una copertura di carenze strutturali e non eliminabili rispetto alle funzioni proprie degli enti pubblici.
      I dati statistici ufficiali ci danno un quadro, per quanto non sufficientemente aggiornato, che richiede l'adozione di precisi provvedimenti legislativi volti a ridurre drasticamente le forme contrattuali stipulabili per legge e a sanare quelle situazioni lavorative di precariato che hanno assunto carattere di stabilità e che sopperiscono a carenze di organico stabili nel tempo.
      Infatti, la stragrande maggioranza dei contratti, in questi anni, sono stati stipulati non per esigenze temporanee e contingenti, ma per effetto del blocco delle assunzioni posto dalle leggi finanziarie, dei meccanismi di non incentivazione all'assunzione nel settore pubblico (assenza di agevolazioni fiscali), con corrispondente e contrario investimento di risorse dirette (incentivi) e indirette (sgravi) alle assunzioni nel settore privato, con passaggio di risorse pubbliche in mano ai privati finanziati direttamente per la gestione di servizi, giunti a costare almeno il 10 per cento (utile d'impresa) in più.
      A nostro avviso, quello delle esternalizzazioni è un altro dei meccanismi messi in atto dalla pubblica amministrazione per rendere ulteriormente precario e flessibile il lavoro rispetto agli andamenti dei bilanci statali e delle operazioni di adeguamento ai parametri di Maastricht, poiché consente di mettere fuori bilancio le spese per il personale, pur comportando, di fatto, un aumento della spesa complessiva legato alla consistenza stessa del meccanismo dell'appalto, che lo rende utile solo alle aziende appaltatrici che possono usufruire di forme contrattuali privatistiche e di un costo del lavoro più basso, dovuto soprattutto alla possibilità di beneficiare di sgravi pagati dalla collettività, offrendo comunque servizi dai costi più alti (per
 

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effetto del differenziale dovuto all'utile d'impresa) e dalla qualità più bassa.
      L'aspetto delle risorse non è, quindi, secondario. Effettuando un calcolo sul costo annuo medio per il personale a tempo indeterminato, pari a euro 38.929,97201, e moltiplicandolo per il numero complessivo di personale/contratti annui di unità precarie, pari a 3.710.063, occorrerebbe reperire risorse pari a euro 144.432.648.745; e considerando la spesa complessiva del personale in tutte le forme contrattuali per il 2003, pari a euro 140.260.388.160, ciò comporterebbe l'esigenza di incrementare l'attuale spesa di circa 4.172.260.574 euro, per trasformare a tempo indeterminato i contratti attualmente precari.
      Tali risorse andrebbero incrementate con quelle occorrenti alla copertura del 50 per cento dei posti messi a concorso e riservati agli interni, in termini di maggiori oneri derivanti dagli incrementi di spesa necessari per gli incrementi di livello.
      Riteniamo che le fonti di copertura della spesa contenute nella proposta di legge siano individuate in maniera certa e non casuale, poiché corrispondono a quelle voci di costo dello Stato che, a nostro avviso, andrebbero comunque eliminate, come le spese militari per le cosiddette missioni di pace, per la «professionalizzazione» delle Forze armate e il finanziamento di nuovi sistemi d'arma; nonché forme di reperimento di risorse aggiuntive (di portata comunque residuale rispetto a quelle summenzionate, che basterebbero di per sé a coprire i costi della proposta di legge) tramite la tassazione delle transazioni internazionali di capitale finanziario a carattere speculativo.
      Per quanto attiene, invece, alle previsioni relative al personale dipendente delle ditte appaltatrici, riteniamo che i costi oggi sostenuti dalle pubbliche amministrazioni per l'esternalizzazione dei servizi pubblici siano tali da eccedere quelli che sarebbero i costi che le stesse pubbliche amministrazioni sosterrebbero con una gestione diretta dei servizi. Sicuramente vi è un dieci per cento di utili di azienda in più, compreso nei costi di appalto, e una serie di incentivi e sgravi di cui godono le aziende e che ricadono direttamente o indirettamente sulla collettività.
      Pertanto, riteniamo che i costi della stabilizzazione dei lavoratori esternalizzati dipendenti delle ditte e cooperative appaltatrici dei servizi pubblici e reinternalizzati potrebbero essere sicuramente coperti con una diversa finalizzazione della spesa già attualmente sostenuta per la fornitura dei servizi in regime di appalto o similare.
      Il fenomeno va inquadrato anche da un versante giuridico, in particolare in merito all'emergere di tendenze del diritto pratico che più volte hanno messo in evidenza contraddizioni profonde tra lo schema negoziale adottato dal legislatore per giustificare i lavori precari e flessibili e la verità materiale degli stessi, rivisitati nello specifico rapporto lavorativo di fatto. La giurisprudenza (in particolare della Corte di cassazione) ha più volte affermato che, al fine di attuare i princìpi, le garanzie e i diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato, non è possibile non attribuire tale natura ai rapporti che la possiedono di fatto. Tale orientamento è stato cristallizzato dalla stessa Corte costituzionale che ha stabilito, inoltre, la discrezionalità del giudice di poter effettuare un sindacato di fatto sulla concretezza del rapporto di lavoro e, in caso di discordanza tra la forma e la sostanza, ricondurre la realtà del rapporto nell'ambito della subordinazione.
      In tal senso, sono identificabili tutti quei contratti di lavoro, oggetto della nostra proposta di legge, paragonabili al lavoro subordinato, ma soggettivamente collocati per fini economico-politici al di fuori di un riconoscimento contrattuale adeguato.
      In merito all'esatta definizione della natura giuridica di detti rapporti di lavoro, la scienza giuridica, sorretta da una giurisprudenza non certamente isolata, ha ritenuto che nel diritto del lavoro non è la qualificazione del regolamento voluto dalle parti a stabilire la natura del contratto, ma è la qualificazione in base alla natura obiettiva del rapporto a modellare la volontà delle parti entro uno schema contrattuale
 

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tassativo. Di conseguenza, è identificabile un rapporto subordinato ogni qual volta il prestatore di lavoro svolge un'attività continuativa alle dipendenze, in base alle direttive e sotto il controllo di un ente datoriale. D'altronde, i caratteri essenziali richiesti per il lavoro dipendente, risultano essere la subordinazione e la collaborazione.
      Nella pratica, alla qualificazione del rapporto si perviene il più delle volte partendo non tanto dalla rilevazione della volontà manifestata dalle parti (espressa in via ufficiale nel tipo di contratto di lavoro stipulato), quanto dalla situazione di fatto determinatasi, cioè dal rapporto considerato nella fase della sua attuazione. Il cosiddetto nomen iuris adottato dalle parti risulta prioritario per la ricostruzione della volontà negoziale, ma non - di fatto - elemento dotato di valore assoluto, essendo suscettibile di verifiche così come le modalità di svolgimento dell'attività lavorativa, e quel che più conta, essendo gli effetti negoziali, anche ai fini giuridici, obiettivamente realizzati dalle parti.
      Ed è del tutto evidente che, nella maggior parte dei casi, il nome dato al contratto non corrisponde agli effettivi rapporti che lo regolano sul posto di lavoro, per cui i tanti contratti definiti come LSU-LPU, co.co.co., contratti a progetto, interinali, a tempo determinato, assegni di ricerca alle dipendenze delle università e degli enti pubblici di ricerca non sono che nomi «giuridici» diversi che nascondono una forma di lavoro subordinato che non tollera di fatto ulteriori mascheramenti.
      Pertanto, riteniamo indispensabile una sanatoria di tutte le attuali posizioni lavorative di fatto a carattere subordinato e riteniamo che la forma del concorso a soli titoli non solo non sia in contrasto con le norme costituzionali, ma che trovi, paradossalmente, legittimazione nella sentenza della Corte costituzionale n. 89 del 27 marzo 2003, nonché nell'esigenza di porre fine a una situazione di illegittimità di fatto di centinaia di migliaia di contratti nel pubblico impiego, nonché di spreco di risorse nella gestione all'esterno di funzioni proprie delle pubbliche amministrazioni.
      Altre proposte di legge avanzate sul tema del precariato sono, a nostro avviso, insufficienti, perché non vanno a incidere sui meccanismi fondamentali dell'introduzione e del ricorso al lavoro precario e comunque portano a una riduzione dei contratti, ma non a un'eliminazione del fenomeno. Un esempio su tutti può essere quello fornito dalla proposta di legge di iniziativa popolare promossa dal NIDIL CGIL e dal professor Stefano Rodotà, che opera solo nel senso di una riduzione del numero dei contratti atipici previsti dalla legge n. 30 del 2003, con una sua parziale abrogazione, ma facendo salve le seguenti tipologie contrattuali: lavoro indeterminato, lavoro a termine, lavoro autonomo e parasubordinato, lavoro interinale, somministrazione lavoro, apprendistato e contratto di inserimento. Inoltre, la citata proposta di legge, pur prevedendo, con particolare riferimento al contratto a tempo determinato, meccanismi per evitare che le tipologie contrattuali flessibili vengano utilizzate per coprire carenze organiche strutturali, non coglie tuttavia il fulcro della questione. Anche le proposte che prevedono una sorta di sanatoria del precariato nelle pubbliche amministrazioni si limitano a conferire una delega al Governo «a definire norme di riforma del sistema di reclutamento per titoli ed esami nelle pubbliche amministrazioni, nel rispetto dell'articolo 97 della Costituzione», rinviando alla concertazione tra le parti la definizione di modalità e numeri per l'avvio di una concreta immissione di contingenti già storicamente precari.
      Riteniamo quindi che la presente proposta di legge possa offrire uno strumento di sanatoria delle situazioni di precariato nel pubblico impiego, ma anche l'avvio di una più generale messa in discussione di tutta la normativa, dal cosiddetto «pacchetto Treu» alla legge n. 30 del 2003, che ha introdotto le forme di lavoro precario e flessibile nel pubblico impiego come in ambito privato.
 

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